Impiantistica sportiva

Stadio G. Meazza di Milano (foto Di Ruscio)

Stadio G. Meazza di Milano – particolare (foto Di Ruscio)

Due sono gli eventi che, in epoca recente, hanno messo i Paesi europei con le spalle al muro: la strage dell’Heysel, nel maggio dell’85 e il massacro di Hillsboourogh, nel 1989. Dalla prima scaturì la messa al bando delle squadre inglesi dalle competizioni internazionali, dal secondo prese vita il celebre Taylor Report che cambiò il volto degli stadi e del calcio d’oltremanica, fino a trasformarlo in quello che è oggi: un prodotto da esportazione, ammirato nel mondo.

E in Italia, cosa è successo?

Si è proceduto con una legislazione di emergenza, creando di fatto un sistema perfettibile, orientato solo al contrasto ed al controllo di condotte e fenomenologie già in atto e non anche alla prevenzione delle stesse mediante creazione di cultura sportiva. Si commenta da solo il fatto che la principale legge sulla sicurezza delle manifestazioni sportive (la n.401/89) abbia subìto, negli anni, ben quaranta interventi di modifica, sempre sull’onda dell’emozione, generata dai gravi fatti che con cadenza pressoché biennale, dal 2003 in poi, hanno consolidato un clima emergenziale.

Ciò significa che tali interventi sono stati tutti caratterizzati da un denominatore comune: l’urgenza.

In Italia la sicurezza delle manifestazioni sportive si fonda ancora e solo su un unico pilastro: la repressione, declinata in sanzioni comminate dagli enti sportivi in caso di violazioni delle norme federali e le azioni di contrasto e repressione attuate dalle Forze dell’ordine. Da un canto, dunque, vi sono gli organismi sportivi, nazionali e internazionali, che applicano un regime sanzionatorio basato sul meccanismo della responsabilità oggettiva e su punizioni collettive, che prevede multe in denaro alle società e chiusura di interi settori degli stadi, sollevando spesso gli ultrà dalle proprie responsabilità.

Dall’altro, vi è il sistema di norme antiviolenza elaborato dal legislatore ordinario che, ispirato ai modelli internazionali, ha cercato, nel tempo, di rispondere alle esigenze che i tragici accadimenti rivelavano.

Sotto questo profilo, quindi, l’ordinamento prevede il divieto di accesso alle manifestazioni sportive (c.d. Daspo) e la facoltà di procedere all’arresto per gli atti più gravi, i biglietti nominativi, i posti numerati, la videosorveglianza e la tessera del tifoso per razionalizzare l’accesso allo stadio, nonché un capillare sistema di controllo teso a contrastare gli atti di violenza e di razzismo, svolto sotto la cabina di regia dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive e con l’azione costante dei Gruppi Operativi Sicurezza (cc.dd. GOS) e delle Squadre tifoserie delle Digos.

Ciò che è mancato in Italia in questi anni è lo sviluppo del secondo pilastro, ossia un maturato impegno per radicare la crescita di un’educazione ad essere sportivo.

La determinazione a legiferare su aspetti apparentemente collaterali, ed invece centrali, come l’impiantistica e, soprattutto, la lucidità di procedervi al di fuori di un contesto di “urgenza” e di repressione, contribuirebbe al perseguimento dell’obiettivo.

Costituisce verità acquisita la correlazione esistente tra l’ambiente e il comportamento: il primo condiziona il secondo per strada, a scuola come allo stadio.

È un fatto che in Italia gli interventi strutturali messi in atto dal 2000 in poi per contrastare la violenza negli stadi siano stati in gran parte indirizzati a impedire che le tifoserie avversarie venissero a contatto fra loro, a cominciare dalle recinzioni. Infatti, se le telecamere installate ovunque consentono una maggiore possibilità di identificazione dei responsabili degli atti di violenza e di razzismo, i nostri stadi, con i settori-ospiti simili – ancora oggi – più a zone di contenimento che a tribune dove poter fruire lo spettacolo calcistico, continuano a prestarsi alle esternazioni, sempre improntate a violenza latente, delle frange più estreme della tifoseria ultrà.

Alla luce di tutto ciò, fermi restando gli indiscutibili e certamente straordinari risultati conseguiti nella lotta alla violenza – soprattutto in occasione di gare di calcio – nonché i grandi passi in avanti fatti dal nostro Paese nell’adeguamento alle buone prassi in vigore in tutta Europa da decenni, è necessario fare un salto di qualità per recuperare quel gap che ancora persiste con i maggiori campionati di calcio esteri.

Da molti anni in Europa è in atto un processo culturale che ha mutato il concetto di stadio, trasformandolo da semplice contenitore di eventi ad infrastruttura idonea a promuovere e produrre servizi, divenendo luogo di divertimento e, contestualmente, centro di profitto autonomo in grado di generare opportunità finanziarie, localizzative e professionali.

In Italia, tale processo culturale risulta in ampio ritardo, in particolare sotto il profilo dell’introduzione di una nuova modalità di gestione degli impianti e di interazione con il territorio, per contribuire a risolvere l’annosa problematica del rapporto tra stadio e città consolidata.

I nostri stadi, vecchi, scomodi, poco funzionali e spesso difficilmente raggiungibili, dovrebbero diventare, come avviene all’estero, vivibili sette giorni a settimana e poter essere realizzati parallelamente allo sviluppo di importanti progetti di riqualificazione urbana e territoriale, al fine di consentire, appunto, sia ritorni positivi per i club calcistici che li detengono o li gestiscono, che maggiore accessibilità per gli utenti, senza dimenticare la possibilità di ricadute economiche vantaggiose dirette e indirette sull’area dove sono stati edificati.

Questo passaggio, evidentemente strategico, contempla inevitabilmente l’inserimento del cittadino fruitore dello stadio nel “ciclo produttivo della sicurezza”, consentendo di superare il vecchio postulato che vedeva le Forze di polizia come unico soggetto attivo nel confronto tra società e violenti, mediante l’immissione degli strumenti del c.d. “controllo informale” tra i soggetti protagonisti del sistema.

“Fare sicurezza”, infatti, non significa solo prevenire e reprimere, ma anche – e soprattutto – diffondere una cultura della legalità che passa per la “responsabilizzazione” dei cittadini e, nel caso specifico, dei tifosi.

Ebbene, uno o più interventi legislativi attuati “in tempi di pace” e diretti all’applicazione di tale filosofia, unitamente ad una politica dello sport tesa alla diffusione dei citati valori, potrebbero realmente rivoluzionare l’attuale approccio alla sicurezza delle manifestazioni sportive.

L’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive ha istituito alcuni tavoli tecnici, che ho il privilegio di coordinare, per uno studio propositivo in tal senso, che consenta al legislatore di muovere, di qui a breve termine, nella direzione auspicata.

Se oggi è difficile andare allo stadio o se la collettività deve talvolta “subìre” la partita (con restrizioni o chiusura della normale viabilità, ovvero divieti di parcheggio, ecc.) questo trova causa in quel sistema claudicante con cui ho esordito.

La condivisione della responsabilità significa contribuire, secondo le rispettive competenze, alla buona riuscita dell’evento. Se si rimanda solo all’operato delle Forze di polizia, chiamate a supplire a “lacune o latitanze”, è gioco forza necessario imporre limiti o divieti, talvolta difficilmente sopportabili.

Non si può pensare di riportare il divertimento allo stadio se non si cambia la cultura sottesa al suo approccio!